Il film, la cui pellicola è rigorosamente in bianco e nero, è un’opera studiata dettagliatamente, sia per quanto riguarda la scelta degli spazi e delle scene all’interno dei quali si muovono i suoi personaggi - e lo spazio qui assume entrambe le dimensioni,  quella di spazio teatrale e di spazio cinematografico -,  sia per ciò che concerne il carattere più interiore e intrinseco del racconto, e cioè quello della difficoltà della relazione educativa e della comunicazione - comprensione dell’espressione linguistica.

Perchè il fulcro della nostra storia, è si quello del dramma dell’handicap della piccola Helen, ma ancora più profondamente è quello “universale” della presa di coscienza della propria esistenza, un’operazione che richiede il passaggio obbligatorio all’interno di un conflitto; e per fare ciò, perchè l’essere possa “ri-emergere” alla vita, è necessario attraversare dolore e sofferenza, toccando il fondo di queste esperienze e confrontandosi con l’altro.


Ma “educare” nel nostro caso non è quello che fa la madre di Helen, non è l’accogliere ogni volta nelle proprie braccia un figlio che a causa di un handicap viene sempre perdonato e nemmeno l’essere sempre indulgente; “educare” è ciò che tenta e riesce a fare l’istitutrice Anne Sullivan, passando proprio attraverso il conflitto e lo scontro, anche quello corporeo.

Non a caso le due figure, quello della madre e quello dell’istitutrice, sono vestite rispettivamente l’una di bianco, l’altra di scuro.

L’apprendimento della parola e la comunicazione del linguaggio, sono al centro di tutto il film: ma la parola non è solo il suono di un insieme di lettere unite, la parola contiene anche i gesti, è il compitare che Anne Sullivan insegna ad Helen, è la corrispondenza tra il significante (il gesto) e il significato cui rimanda; è alla luce di ciò che spesso, nel film, il dialogo viene sostituito dalle azioni e dal linguaggio corporeo dei personaggi, come nella scena memorabile di nove minuti nella sala da pranzo dove il corpo a corpo tra l’istitutrice ed Helen, raggiunge l’apice della drammaticità in un’incalzante ed unica sequenza cinematografica  a telecamera fissa: Helen, alla fine, mangerà per la prima volta con il cucchiaio e non con le mani e piegherà il suo tovagliolo.

Anne Sullivan:”... come posso raggiungerti?”

Anne Sullivan:”... un assedio è un assedio ...”

“ ... stavo infilando perle di differente grandezza ... alla fine mi accorsi di un errore molto evidente nella righe e per un istante mi concentrai sul mio lavoro cercando di pensare come disporre le perle. La signorina Sullivan mi toccò la fronte e compitò con precisione: Pensa ! In un attimo capii che quella parola era il nome del processo che si stava svolgendo nella mia testa. Fu quella la prima percezione cosciente di un’idea astratta ...


da: “La storia della mia vita

di H. Keller

Il film risulta ricco di riferimenti biblici: la lotta tra l’angelo e Giacobbe è richiamata nella sfida tra Helen e Anne, molteplici i rimandi al valore della ‘parola’: come nel testo genesiaco Dio crea per mezzo della parola e l’uomo è chiamato a dominare e soggiogare gli elementi della creazione, così, imponendo  il rapporto tra il segno e la parola, Anne insegna ed Helen impara a parlare con un nuovo linguaggio; è come se venisse ricreata l’intera loro realtà: Helen non è più dominata dal suo caos ma è fatta capace di gestire sé e ordinare il proprio universo.


E non mancano nemmeno i richiami simbolici: non è un caso se la prima parola che Helen pronuncia e della quale capisce il significato sia proprio “acqua”;  elemento che da sempre è compreso e aiuta a comprendere la vita e il suo miracolo generativo, nel segno dell’acqua Helen e tutta la sua famiglia rinascono a nuova vita.

Alla fine la lotta porta con sé la benedizione della nuova esistenza, proprio come Giacobbe con l’angelo di Dio (cfr. Gen 32,25-33).

Alla fine del film, Helen riconoscerà in Anne la sua educatrice compitandole la parola “maestra” e le restituirà, sempre simbolicamente, la chiave che le aveva sottratto agli inizi.

Nell’ultima inquadratura l’immagine delle due donne finalmente riunite all’interno della casa, riecheggia come un una lunga eco.

“ ... durante i primi diciannove mesi, avevo intravisto i vasti campi verdi, il cielo luminoso, gli alberi ed i fiori che in seguito l’oscurità non riuscì ad annullare completamente. Se abbiamo avuto la vista anche una volta sola, “il giorno è nostro con quello che ci ha mostrato”.


da “La storia della mia vita”

di H. Keller

La filmografia inerente le problematiche della comunicabilità è molto vasta; ricordiamo qui “Il ragazzo selvaggio” del 1969 di F. Truffaut, che, oltre a indagare la dimensione del linguaggio, si muove attraverso il binomio natura/società.

Per una filmografia inerente gli argomenti trattati cfr.:

http://www.festivalcinemanuovo.eu/art_ita.htm

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