E comunque “Habemus papam” rientra per fortuna nelle fila del vecchio stile di Moretti, quello per intenderci de “La messa è finita”, “La stanza del figlio”, “Bianca”, “Caro diario”, “Sogni d’oro”, “Palombella rossa”, e non quella de “Il caimano”; ineccepibile l’interpretazione di Michel Piccoli, così come le scenografie di Paola Bizzarri.
Sul finale qualcosa da dire ci sarebbe: in qualche modo lo definiremmo scontato e con un senso quasi di “non finito” e al contempo con un riferimento alla pagina evangelica di Giovanni (forse non voluto?!).
Ai più potrebbe sembrare un finale in cui il personaggio si arrende al peso della sua debolezza, resa questa che sembrerebbe essere un’abdicazione non solo al soglio ma ben più alla fede, invece vi è una bellissima lettura del dialogo finale tra Gesù risorto e Pietro. Dopo che il Risorto domanda per ben tre volte a Pietro se lo ama, richiamando le tre volte in cui lo rinnega, questi alla fine si arrende quasi sconsolato: "Signore, tu conosci tutto; tu sai che ti voglio bene" (Gv 21,17). A questa resa ecco che il Risorto gli affida definitivamente il gregge dei credenti (“Gli rispose Gesù: "Pasci le mie pecore”) ricordandogli una dimensione di continua resa: “quando eri più giovane ti vestivi da solo e andavi dove volevi; ma quando sarai vecchio tenderai le tue mani, e un altro ti vestirà e ti porterà dove tu non vuoi” (v.18). La parabola quindi sembra chiudersi in un lasciare che la propria debolezza non venga confusa con la forza che riposa in un Altro che conduce, così Melville può alla fine affermare:
“Non voglio condurre, ma essere condotto”.